Come possiamo gestire le paure dei cavalli? Quali sono i significati di questi tre termini? E quali le loro differenze. Vediamo di fare chiarezza sull’argomento.
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Il cavallo è un erbivoro ed in quanto tale appartiene al regno animale delle prede. Per assicurare la propria sopravvivenza, Madre Natura ha dotato gli equini di sensi molto sviluppati, in grado di cogliere ogni rumore, movimento o odore che li potesse mettere in pericolo. Non avendo alcun mezzo difensivo, se non la fuga, questi animali hanno sviluppato un istinto dedito alla rapida evasione dai problemi. Il tempismo è tutto, perciò il cavallo ha imparato che la cosa migliore da fare, per la propria sopravvivenza, è allontanarsi da un possibile problema e, solo in un secondo momento, valutare se quello che aveva percepito era effettivamente un pericolo (foto1). Fermarsi ad analizzare la situazione poteva essere rischioso, per questo l’evoluzione ha portato il cavallo agli attuali comportamenti. Ricordiamo che l’evoluzione del mondo equino affonda le radici della sua storia a circa 5 milioni di anni fa. Talvolta, tuttavia, il cavallo si trovava in una situazione tale per cui la fuga non era possibile, in quanto intrappolato in un angolo o perché il predatore lo aveva già azzannato, trattenendolo. In questo caso l’istinto cambiava la scelta, da fuga a combattimento: attaccare il predatore poteva dare una chance di aprirsi un varco e riuscire quindi a mettersi in salvo (foto2). Quindi il meccanismo era (ed è ancora oggi): fuggire, se possibile; combattere, se necessario. Queste scelte dettate dall’istinto, che io definisco reazioni, sono rimaste impresse nel cervello degli equini fino ad oggi. L’essere umano ha iniziato ad alleva-re i cavalli circa 5 mila anni fa e nella sua selezione ha fatto in modo di esaltare alcuni comportamenti insiti nella natura dell’animale. Questa selezione, durata millenni, ha portato alla definizione di alcuni soggetti più o meno propensi all’istinto. I cavalli più reattivi (definiti anche “caldi”) venivano utilizzati per la loro velocità, quindi con destinazione principalmente sportiva. I meno istintivi (definiti anche “freddi”), invece, erano dediti al lavoro, come il traino dei carri o il lavoro da sella. In entrambi i casi, la gestione della paura di queste prede è sempre stato un cruccio umano. La selezione poteva dare soggetti veloci, ma istintivi, quindi propensi a spaventarsi più facilmente. I soggetti meno istintivi erano meno inclini alla paura, ma più lenti nelle risposte. Perciò si capì la necessità di dover lavorare anche sul cervello del cavallo, oltre che sulla genetica. Tanto più ora che il cavallo non viveva più al sicuro tra i suoi simili in un branco, ma a contatto con l’uomo, in un rapporto diretto con un suo predatore naturale. Inizialmente si cercò di obbligarlo al controllo della paura tramite la forza e l’imposizione. Si studiarono paraocchi, perché il cavallo non vedesse, oppure strumenti per immobilizzare l’animale nel momento della paura, in una forma di accettazione forzata, o, ancora, la creazione di una paura maggiore, tramite fruste, bastoni o speroni, così che l’animale accettasse la minore per terrore della maggiore. Solo molti secoli dopo si iniziò a cercare di capire come far comprendere al cavallo le situazioni da lui ritenute pericolose. Il termine “desensibilizzazione”, in questo senso, è entrato nel linguaggio equestre da quando hanno cominciato a diffondersi le tecniche di hosemanship e per anni è stato sinonimo di “far affrontare le paure ad un cavallo”. La desensibilizzazione parte dal concetto di sottoporre l’animale ad uno stimolo e, dalla ripetizione costante e continua di questo stimolo, portare ad una inibizione sensoriale nei confronti della paura generata. Da qui la nascita del termine, ovvero togliere sensibilità al cavallo nei confronti degli stimoli esterni. Negli anni a seguire è nata una corrente di pensiero che contestava i limiti della desensibilizzazione, i quali risiedevano nel fatto che tale pratica agiva trasversalmente nella mente del cavallo, rendendolo asettico ad ogni stimolo esterno, quindi non solo alle paure, ma anche alle richieste del cavaliere. La conseguenza era quella di avere un cavallo “sordo” ad ogni stimolo esterno, sia esso positivo (una richiesta), che negativo (uno spavento). Perciò subentrò un lavoro di “abituazione”: ricercare gli oggetti e le situazioni ritenute pericolose dal cavallo e cercare di fargli comprendere come esse fossero in realtà innocue. Così, ritrovandosi in futuro di fronte allo stesso oggetto o alla stessa situazione, il cavallo la potesse riconoscere e quindi non spaventarsi. L’abituazione permetteva di mantenere la sensibilità dei comandi e di concentrare il lavoro sulla paura in determinati ambiti.
All’abituazione rimane tuttavia ancora un difetto di fondo: il cavallo impara a riconoscere un determinato oggetto o una determinata situazione, ma non minime variazioni delle stesse. Quindi un cavallo abituato, ad esempio, ad un sacchetto di nylon bianco di una certa dimensione, prenderà comunque paura di un sacchetto con un colore diverso o con un’altra dimensione.
Nel metodo ATH, al quarto step, si parla di desensibilizzazione, utilizzando il termine ormai d’uso comune nell’equitazione, ma cercando di darne il senso di “razionalizzazione” (foto4). Considerando che la parte istintiva del cervello del cavallo lo porta alla fuga o al combattimento, la parte opposta, quella che ci permette di comunicare con il cavallo e di avere l’equitazione, è quella relativa alla razionalità. Questa seconda parte contrasta l’istinto, portando l’animale a trovare soluzioni a situazioni nelle quali sarebbe incline alla fuga. Queste soluzioni le chiamo risposte, in contrapposizione alle reazioni. La razionalizzazione prevede di allenare e sviluppare la parte razionale del cervello. Il suo sviluppo si contrappone alla parte istintiva, limitandola di conseguenza. L’obiettivo non è più fare in modo che il cavallo non prenda paura, ma far in modo che l’animale rifletta sulla situazione e trovi una soluzione adatta. Questo non preclude che una delle soluzioni possa essere proprio la fuga (foto5). La razionalizzazione agisce sul cervello del cavallo, allenandolo progressivamente, fino a quando la sua prima scelta non sarà l’istinto, ma la ragione. La differenza risiede nelle tempistiche di reazione o risposta: un cavallo non allenato a trovare soluzioni, in caso di paura reagirà ad una velocità non gestibile dall’essere umano, perciò potenzialmente pericolosa. Un cavallo allenato, invece, per qualche secondo cercherà una soluzione grazie alla parte razionale e, nel caso in cui non la dovesse trovare, allora sceglierà la fuga. Quei secondi permettono al cavaliere di gestire il momento o, perlomeno, di prepararsi ad una reazione da parte dell’animale. Questo fa un’enorme differenza, specialmente quando si è in sella. Quindi la razionalizzazione non mira a sconfiggere le paure, ma dà gli strumenti necessari per analizzarle e decidere se rispondere o reagire (foto6). Rispetto alla desensibilizzazione è un procedimento meno meccanico e più mentale, mentre rispetto all’abituazione ottiene risultati di più ampio raggio, non concentrando il cavallo solo su determinati oggetti o situazioni. Con la razionalizzazione, il cavallo impara a gestire anche situazioni a lui sconosciute. Lo sviluppo del lavoro sulla razionalizzazione verrà spiegato in dettaglio in uno dei prossimi articoli, in quanto è un processo nel quale è fondamentale capirne la logica. La scelta di uno di questi tre sistemi per vincere le paure dei cavalli, dipende dal cavaliere, dalla sua capacità di lavorare il cavallo e dalle esigenze di utilizzo dell’animale stesso. Per un cavallo da passeggiata per principianti o ippoterapia sarà più consigliabile la desensibilizzazione. Per un cavallo da scuola, che rimane sempre nello stesso maneggio, o un cavallo da gara, che rimane sempre in un ambiente delimitato, sarà più adeguata l’abituazione. Per un cavallo da trekking o per chi cerca un cavallo personale collaborativo, la razionalizzazione è la scelta migliore.
GLI STALLONI E LE FEMMINE ALPHA
Un discorso a parte dev’essere fatto per gli stalloni e le femmine capobranco (definite alpha). Gli stalloni in natura hanno il compito di riprodursi e difendere l’harem, sia da pericoli esterni, sia da altri stalloni. Per cui la parte istintiva non richiede di fuggire o di combattere, ma l’esatto opposto: in prima battuta combattere, se non si riesce, allora fuggire (foto3). Perciò tutti i lavori, siano essi di desensibilizzazione, abituazione o razionalizzazione, devono tener conto di questo non trascurabile dettaglio. Il compito non è tanto evitare la fuga dello stallone, ma aumentare la sopportazione agli stimoli, per evitare una possibile aggressione. Questo motiva il fatto che gli stalloni dovrebbero essere gestiti solo da cavalieri esperti, che sappiano leggere i segnali che il cavallo invia, al fine di evitare di essere attaccati. È vero anche che la selezione genetica ha portato ad avere molti stalloni con una parte istintiva limitata e più vicini all’atteggiamento di un castrone, ma l’istinto, per quanto sopito, è sempre presente. Le femmine alpha hanno un atteggiamento non dissimile a quello degli stalloni, perciò anch’esse vanno gestite con molta cautela ed esperienza.